Ugo Foscolo in «Enciclopedia Europea» (1977)

W. Binni, Ugo Foscolo, «Enciclopedia Europea», vol. IV, Milano, 1977, Garzanti, pp. 1040-1043.

UGO FOSCOLO

Foscolo, Ugo (Zante, 1778-Turnham Green, Londra, 1827) poeta italiano. Nato il 6 febbraio 1778 a Zante (la greca Zacinto), una delle isole Ionie allora possedimento di Venezia, fu battezzato col nome di Niccolò, ma a partire dal 1797 si firmò Niccolò Ugo e poi semplicemente Ugo. Il padre, Andrea, era un medico di bordo d’antica famiglia veneziana; la madre, Diamantina Spathis, una greca di modeste origini. Trascorsa l’infanzia nell’isola natale, fece i primi studi a Spalato, finché, alla fine del 1792, raggiunse la madre a Venezia, dove ella si era trasferita dopo la morte del marito. Tra il ’93 e il ’97, dopo essersi iscritto alla scuola di San Cipriano e aver frequentato irregolarmente le lezioni di M. Cesarotti all’università di Padova, s’impadroní delle lingue classiche e moderne, portando avanti un vastissimo programma di letture (ne è testimonianza il Piano di studi del 1796) e applicandosi a un’esperienza precoce di poeta (la raccolta di poesie inviata già nel ’94 al parente C. Naranzi e pubblicata postuma nel 1831) e di tragediografo (il Tieste, rappresentato nel gennaio del 1797). Contemporaneamente sfogava la sua esuberante passionalità in amori tempestosi, come quello per la celebre dama letterata Isabella Teotochi Albrizzi.

Ma presto alla letteratura e alle amicizie con poeti e scrittori famosi s’intrecciò prepotente la passione politica. Abbracciate le idee giacobine, il giovane Foscolo divenne uno dei promotori della trasformazione della vecchia Repubblica di Venezia, oligarchica e aristocratica, in repubblica democratica, sicché nell’aprile del ’97 egli dovette abbandonare la città e rifugiarsi nella Cispadana, a Bologna, dove si arruolò tra i cacciatori a cavallo e pubblicò il sonetto A Venezia, le odi A Bonaparte liberatore e Ai novelli repubblicani, gli sciolti Al Sole. A Venezia tornò un mese dopo, quando cadde il governo oligarchico, ottenendo, nel luglio, il posto di segretario provvisorio della municipalità. Ma il trattato di Campoformio (17 ottobre 1797), con il quale Napoleone cedeva Venezia all’Austria, lo costrinse di nuovo all’esilio. Verso la fine del ’97 si stabilí a Milano, strinse amicizia col Monti, conobbe il Parini e collaborò con P. Custodi e M. Gioia al battagliero «Monitore italiano»; nell’estate del ’98 passò a Bologna, scrisse sul «Monitore bolognese» e sul «Genio democratico» (fondato a Modena dal fratello Giovanni) e s’impegnò nella composizione della sua prima opera di vasto respiro, le Ultime lettere di Jacopo Ortis. Di fronte all’invasione austro-russa (aprile 1799), riprese la divisa militare, combatté in Emilia e in Romagna (fu ferito a Cento) e partecipò alla difesa di Genova, riportando un’altra ferita in uno scontro all’arma bianca; proprio a Genova, in giornate cosí tumultuose, gli riuscí tuttavia di ristampare l’ode A Bonaparte liberatore, con una nuova audace lettera dedicatoria, e di comporre l’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo.

Dopo la vittoria napoleonica di Marengo (1800), compiute alcune missioni in Lombardia, Emilia e Toscana (dove, a Firenze, visse l’intensa passione per Isabella Roncioni), tornò a Milano e alternò l’attività letteraria con nuovi amori, tra cui quello ardentissimo per Antonietta Fagnani Arese, documentato dal relativo, importante carteggio. Mentre andava abbozzando il Sesto tomo dell’io (frammento di un incompiuto romanzo autobiografico), scriveva l’Orazione a Bonaparte e completava l’Ortis, dandolo alle stampe nel 1802, stimolato anche dalla spiacevole circostanza che un tal A. Sassoli aveva portato a termine il libro per conto dell’editore bolognese Marsigli (l’edizione spuria era uscita col titolo di Vera storia di due amanti infelici). L’anno dopo pubblicava la traduzione commentata della Chioma di Berenice di Callimaco e un opuscolo di Poesie contenente le due odi A Luigia Pallavicini e All’amica risanata, e i dodici sonetti scritti e rielaborati tra il 1797 e il 1803 (un’edizione parziale era già uscita nel 1802). Frattanto le sue impennate indipendentistiche lo rendevano sospetto alle autorità francesi, sicché nel 1804 (divenuta difficile la sua permanenza a Milano) chiese e ottenne di essere inviato come ufficiale nella Francia del nord (Valenciennes, Lilla, Calais, Boulogne-sur-Mer), dove Napoleone veniva preparando un’armata per invadere l’Inghilterra. Qui trascorse due anni tediosi, pur se arricchiti dall’amore per una giovane inglese (che gli dette una figlia, Floriana) e da una discontinua operosità letteraria, al cui centro si pone il primo tentativo di tradurre il Viaggio sentimentale di L. Sterne.

Svanito il progetto napoleonico, nel marzo 1806 rientrò a Milano, capitale del regno d’Italia, con Napoleone re ed Eugenio di Beauharnais viceré: situazione che, riducendo i margini di autonomia italiana, rafforzava i dissensi politici del poeta, ben presenti nella stessa genesi del carme Dei sepolcri, composto subito dopo il ritorno in Italia e pubblicato a Brescia nel 1807, contemporaneamente all’Esperimento di traduzione dell’Iliade. Riuscí per qualche tempo a tenere a bada avversari politici e letterari, godendo fra l’altro della protezione del ministro della guerra A. Caffarelli, cui nel 1808 dedicò il primo volume delle Opere di R. Montecuccoli da lui curato; e nel febbraio dello stesso anno ottenne la cattedra di eloquenza all’università di Pavia, dove il 22 gennaio 1809 tenne la celebre orazione inaugurale Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, seguita da poche altre lezioni perché, nel frattempo, quell’insegnamento era stato soppresso dalle autorità. Subito dopo si esasperarono i motivi d’attrito con l’ambiente milanese: nel 1810 ruppe i rapporti col Monti e pubblicò l’opera polemica Ragguaglio dell’Accademia de’ Pitagorici; il 9 dicembre del 1811 la rappresentazione alla Scala della sua seconda tragedia, l’Aiace, carica di allusioni antinapoleoniche, aggravò i sospetti della polizia, che proibí le repliche e sospese il poeta dal suo ufficio di revisore delle traduzioni della compagnia dei commedianti al servizio del re d’Italia. Pertanto, dopo alcuni viaggi a Venezia e a Pavia, egli decise di lasciare il regno d’Italia e si recò nel 1812 a Firenze, allora capitale del regno d’Etruria. Qui rimase sin verso la fine del ’13, vivendo una singolare condizione di equilibrio, confortato da amicizie rare e sicure (soprattutto nel salotto della contessa d’Albany), e dall’affetto “coniugale” di Quirina Mocenni, la «donna gentile»: un agio, una tranquillità che, dopo la violenza cupa della terza tragedia, la Ricciarda (1813), favorirono la poesia pacata delle Grazie, il proseguimento della versione dell’Iliade, il compimento della versione-creazione del Viaggio sentimentale, pubblicata a Pisa nel 1813 insieme alla Notizia intorno a Didimo Chierico.

Ma il cerchio d’armonia venne presto spezzato dagli eventi politici. Mentre crollava l’impero napoleonico, il poeta, nel novembre 1813, tornò a Milano disposto a combattere; prese parte ai vari tentativi di salvare il regno d’Italia, pensò anche, per un momento, alla possibilità di collaborare in una posizione autonoma e critica al regime austriaco, che cercò di accaparrarsi il suo appoggio offrendogli la direzione di una nuova rivista, la futura «Biblioteca italiana». Ma quando gli fu chiesto il giuramento militare, avvertí l’assurdità di quel compromesso e, rotto ogni indugio, la sera del 30 marzo 1815 fuggí da Milano e dall’Italia. Dapprima peregrinò in Svizzera, dove, nel 1816, pubblicò la terza edizione dell’Ortis (con l’aggiunta dell’importante lettera del 17 marzo, contro Napoleone), portò a termine i Discorsi della servitú dell’Italia e diede alla luce l’Ipercalisse, una satira in prosa latina, secondo lo stile biblico dell’Apocalisse, contro politici e letterati.

Infine, il 12 settembre 1816, si stabilí a Londra, affettuosamente accolto dagli ambienti liberali inglesi. Ma tali rapporti vennero poi guastati dal comportamento intollerante e megalomane del poeta. Si aggravavano intanto i disagi economici; rapidamente dilapidato il piccolo patrimonio di Floriana (la generosa figlia che aveva ritrovato a Londra in circostanze romanzesche e che restò fedele compagna delle sue sventure), egli fu costretto a un estenuante lavoro editoriale e giornalistico. Ammalato e perseguitato dai creditori (che nel ’24 lo fecero arrestare per debiti), visse gli ultimi anni nei piú squallidi quartieri londinesi, celandosi spesso sotto falso nome; finché nel 1827, ridotto a miseria estrema, andò ad abitare in una modestissima casetta del villaggio di Turnharm Green, dove la morte lo colse a 49 anni, il 27 settembre di quell’anno. Le sue spoglie rimasero nel cimitero di Chiswick, sin quando, nel 1870, il governo italiano provvide a trasferirle nella chiesa di Santa Croce in Firenze.

Anche nel sempre piú triste periodo inglese l’alacrità intellettuale e artistica del Foscolo non si arrestò. Appartengono a questi anni la quarta edizione dell’Ortis (Londra, 1817), i tentativi di ripresa delle Grazie, una raccolta di Lettere scritte dall’Inghilterra (1817), la Lettera apologetica (resa nota dopo la morte), gli Scritti su Parga (1819) e, soprattutto, vari studi di letteratura, tra cui il Saggio sullo stato della letteratura italiana nel primo ventennio del secolo decimonono (1818), i Saggi sul Petrarca (1821), le lezioni tenute nel ’23 sulle Epoche della lingua italiana (postume, 1850), il Discorso sul testo della Divina Commedia (1825), il Discorso storico sul testo del Decamerone (1825), il lungo articolo-recensione Della nuova scuola drammatica italiana (composto nel ’26 e pubblicato postumo nel 1850).

Dai primi versi all’«Ortis»

La vocazione poetica del Foscolo si manifestò precocemente fin dagli anni veneziani, prima sperimentando forme tardo-arcadiche, poi, dal ’95 al ’96, aprendosi a un impetuoso sfogo autobiografico che alimentò poesie scomposte ed enfatiche, oscillanti tra grandiosità neoclassica e sentimentalismo preromantico. Ma già nel ’97 il Foscolo superava questa fase di apprendistato, maturando una poetica personale fremente di spiriti giacobini e libertari, e insieme percorsa da un pessimismo tormentoso e convulso. Tali motivi, variamente annunciati nelle odi A Bonaparte liberatore e Ai novelli repubblicani, nei versi sciolti Al Sole e nella tragedia Tieste, troveranno piú ampi e convincenti sviluppi nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis.

L’Ortis è un romanzo epistolare (sul modello della Nouvelle Héloïse di Rousseau e del Werther di Goethe) passato, come si è visto, attraverso numerose redazioni, anche se resta fondamentale quella del 1802. Di qui il suo carattere di «opera aperta», di «libro della vita», che il Foscolo si sentiva in diritto di riprendere e modificare, alla luce della sua evoluzione artistica e ideologica. Ma, nel generale autobiografismo del romanzo, si ravvisa anche un non trascurabile sdoppiamento fra autore e personaggio, tra il Foscolo collaboratore-critico del potere napoleonico e l’Ortis intellettuale disperato e suicida. Nella finzione delle lettere inviate da Jacopo all’amico Lorenzo, la breve trama si svolge con un accelerato ritmo drammatico. Fuggiasco da Venezia, il giovane protagonista si isola nella solitudine della sua terra, i colli Euganei. Qui conosce Teresa e se ne innamora senza speranza, sapendo che la fanciulla è promessa a Odoardo (personificazione della mediocrità benpensante e calcolatrice). Quindi Jacopo parte per un viaggio irrequieto e angoscioso che lo conduce a Bologna, a Milano (dove incontra il vecchio Parini), a Firenze (dove cerca invano di avvicinare l’Alfieri e venera i sepolcri dei grandi italiani in Santa Croce), fino a Ventimiglia e alla frontiera tra Italia e Francia, per poi (venuto a conoscenza delle nozze di Teresa) tornare sui colli Euganei e uccidersi: atto di suprema protesta contro una realtà troppo diversa dai suoi ideali e dal suo bisogno di vita alta e virile. In questa vicenda si traduceva potentemente lo scacco personale e storico del Foscolo: scacco che coinvolgeva una crisi non solo politica, ma filosofica ed esistenziale, nata dal contrasto tra l’ansia di vita e le leggi meccanicistiche e materialistiche della natura, tra il razionalismo e le nuove aspirazioni romantiche. Da tale formidabile prova emergevano temi sui quali il Foscolo avrebbe lavorato a lungo, sia cercando di rivedere con un maggior distacco alcuni essenziali motivi autobiografici (l’attrazione verso la morte, il destino dell’esilio, il sepolcro onorato di pianto e tramite di affetti ideali), sia impegnandosi nel superamento del pessimismo ortisiano attraverso la «religione» delle illusioni vitali, razionalmente qualificabili appunto «illusioni», ma sentimentalmente capaci di stimolare, come valori autentici, ad azioni nobili e generose.

I sonetti e le odi

Gli otto sonetti scritti prima del 1802, e pubblicati in quell’anno, sono legati al clima passionale dell’Ortis e a vicende e amori di quel periodo tumultuoso, di cui esprimono momenti e impeti in uno stile lirico-drammatico caratterizzato da interrogazioni ed esclamazioni enfatiche. Ben superiore è il risultato dei quattro sonetti aggiunti nell’edizione del 1803 (Alla Musa, In morte del fratello Giovanni, A Zacinto, Alla sera), che proiettano motivi e temi del romanzo in una visione armoniosa e severa, con un senso piú alto e universalizzante della poesia. Soprattutto Alla sera supera ogni occasione esternamente autobiografica, per salire a una meditazione lirica assoluta, a un movimento tutto interiore che armonizza sensazioni e sentimenti, pensiero e fantasia. Con un’ottica diversa e con diversi strumenti stilistici, la ricerca di una superiore armonia viene tentata anche nelle due odi A Luigia Pallavicini e All’amica risanata: componimenti con i quali il Foscolo si avvicina decisamente al neoclassicismo, alla sua nobile eleganza e al suo diretto ricorso ai miti classici. Da un’occasione galante (la caduta da cavallo di una gentildonna genovese e l’omaggio alla sua bellezza deturpata che si immagina poi interamente restituita) il poeta trae lo spunto per la prima ode, che è un inno fervido e lieto, ricco di movimenti alacri e sorridenti, assecondati da un ritmo metrico settecentescamente elegante (sei settenari a rima baciata finale). Nella seconda ode, invece, la tormentosa passione per la Fagnani Arese si traduce in una mobile e perfetta visione di alto neoclassicismo animato da vibrazioni romantiche. Dall’interno della poesia emerge il motivo esemplare dell’«aurea beltade» come unico «ristoro» concesso dal fato alle «nate a vaneggiar menti mortali»: un motivo di illusione-valore che, nei suoi limiti, anticipa il grande tema delle illusioni vitali, la nuova poetica mitico-didascalica enunciata nelle parti piú impegnative del Commento alla Chioma di Berenice, opera in cui il poeta dotto e neoclassico (ma di un neoclassicismo che ha assorbito i fermenti piú vivi del preromanticismo) precisa le origini della poesia come unione del «passionato» e del «mirabile», delle passioni contemporanee (personali e storiche) e della superiore sigla del mito classico che artisticamente le commuta, rendendole universali e durature.

I «Sepolcri»

Il carme Dei sepolcri, composto tra la fine dell’estate e l’inverno 1806 e dedicato al Pindemonte, realizza organicamente la concezione della poesia fondatrice ed eternatrice di valori umani e civili. Il motivo occasionale fu l’editto napoleonico di Saint-Cloud che, emanato il 12 giugno 1804 ed esteso all’Italia il 5 settembre 1806, proibiva la sepoltura fuori dei cimiteri suburbani e l’uso di monumenti funebri e di epitaffi. Ma solo esteriormente il carme può sembrare la protesta contro una legge; in realtà (sulla base di una sdegnata presa di coscienza della nuova situazione italiana, aggravata agli occhi del Foscolo dalla costituzione del regno d’Italia) confluiscono in esso echi della letteratura preromantica (dall’Arcadia lugubre italiana ai poeti sepolcrali inglesi: E. Young, Th. Gray ecc.) e, soprattutto, temi e problemi già vivi nelle precedenti opere foscoliane e ora portati a piena maturità nella lirica esaltazione di illusioni-valori contrapposti al gretto razionalismo. Non che il Foscolo acceda a una prospettiva religiosa trascendente, o che ripudi la legge meccanicistica della natura, o che neghi la realtà tragica della morte come annullamento della vita individuale; ma, mentre accetta e ribadisce tutto ciò, egli tenta, con generoso slancio, di creare (partendo proprio dal problema della morte) un arco di illusioni consolatrici e alimentatrici di nuova vita, soprattutto civile e nazionale (il poeta dichiarerà poi che il suo problema non era la «resurrezione dei corpi», ma quella delle virtú). Proprio questo conflitto tra idealismo e pessimismo materialistico, tra il senso della morte e l’«armonia del giorno», è la molla possente della poesia dei Sepolcri e della sua organicità dialettica, mossa, dinamica, cui ben corrisponde quell’energico «chiaroscuro» che è il procedimento stilistico tipico del carme, verificabile non soltanto nell’efficacissima contrapposizione di quadri mesti e desolati a quadri vitali, sereni, luminosi, ma anche all’interno di singole immagini e scene.

Che i Sepolcri non siano un seguito di liriche o di frammenti lirici congiunti da passaggi di carattere meditativo può essere dimostrato anche da una rapida considerazione dello sviluppo tematico e tonale delle varie parti del carme. La prima (fino al v. 50) è dominata da un tono di mestizia elegiaca che ben si addice al problema dell’utilità o meno dei sepolcri, presentato prima nel suo aspetto negativo (con la morte tutto finisce per l’individuo) e poi svolto nella prospettiva del sentimento che afferma, contro la fredda ragione, una possibilità di colloquio tra vivi e morti. Il secondo tempo (fino al v. 90) ne porta una poetica conferma, polemizzando contro l’uso delle fosse comuni e rievocando la figura del Parini (le cui spoglie furono appunto abbandonate in una fossa comune) in toni affettuosi e solenni che preparano il passaggio alla terza parte (fino al v. 150). In essa il tema dei sepolcri supera l’ambito di una «corrispondenza» privata e si svolge in ritmi maestosi e «sacri», coerenti alla nuova prospettiva che proclama il significato storico, civile, patriottico della tomba. L’uso delle onoranze funebri viene infatti vichianamente legato alle origini stesse della civiltà: religione profondamente sentita dagli antichi greci e romani e poi ripresa, tra i moderni, dagli inglesi con i loro cimiteri-giardini, dove il culto degli affetti familiari si congiunge al culto di eroi nazionali come Nelson. Riferimento, questo, al vincitore di Trafalgar, che, mentre chiarisce la sottesa polemica antinapoleonica del Foscolo, ben introduce, con una specie di impetuoso squillo eroico, la quarta parte (fino al v. 212) ispirata all’esaltazione delle tombe dei grandi e del loro valore nella storia di una nazione. Questa zona centrale è certo quella che, corrispondendo piú direttamente all’intento politico-civile del Foscolo, al suo gusto di poeta-profeta, corre maggiori rischi di enfasi. Ma inestricabile è il viluppo di eloquenza e poesia: un intreccio complesso che sfocia in una superba tensione espressiva, capace di scandire il suo crescendo attraverso la rappresentazione festante e luminosa del paesaggio fiorentino e i fulminei ritratti dei grandi italiani, fino all’auspicio (tratto appunto dai loro monumenti in Santa Croce) di un risorgimento dell’Italia mosso dallo stesso impeto patriottico che aveva guidato gli eroi greci contro i persiani. Proprio attraverso la scena tumultuosa del campo di battaglia di Maratona, il carme giunge all’ultima parte (fino al v. 295) in cui il poeta attinge dall’atmosfera leggendaria del mondo antico i toni piú universali del suo canto. Domina il tema della funzione eternatrice e consolatrice della poesia che (pur nei limiti di una realtà dolorosa e caduca) vince il silenzio dei secoli e l’opera devastatrice del tempo. La poesia di Omero eternerà sí la gloria dei vittoriosi achei, ma anche, e piú, quella di Ettore, l’eroe caduto difendendo la patria e destinato a essere compianto finché il sole «risplenderà sulle sciagure umane». Cosí la discussione sul valore dei sepolcri si è trasformata in un inno all’eroismo sfortunato, e la poesia del carme è diventata come la voce sacra, solenne, profonda di tutti gli uomini che, pur soggetti al dolore e alla morte, riescono a fondare supremi valori di vita.

«Le Grazie»

Il Foscolo non trovò piú la forza di organicità dei Sepolcri; tuttavia la sua esperienza vitale e storica, la sua problematica culturale e ideale lo sollecitarono a portare avanti una nuova ricerca poetica che, in forma piú episodica ma altissima e coerente, toccò il culmine della perfezione nell’incompiuto poema Le Grazie. Va però anche ricordato che, mentre attendeva a quest’opera, il poeta riprese e completò la traduzione del Viaggio sentimentale dello Sterne, accompagnandola con quella Notizia intorno a Didimo Chierico che delinea un nuovo autoritratto in chiave di disincantata saggezza, attraverso una prosa singolarmente moderna, agile e venata di sottile humour malinconico: è il tono caratteristico del Foscolo detto «didimeo», diverso e complementare rispetto a quello del Foscolo «ortisiano».

Le Grazie furono inizialmente concepite come un solo inno e poi articolate in tre inni mai portati a termine: i frammenti, arbitrariamente ordinati da F.S. Orlandini (1848), furono ripubblicati da G. Chiarini (1904), ma si attende ancora un’edizione critica soddisfacente. Il primo inno, dedicato a Venere, canta la nascita delle Grazie nel mare greco e i primi progressi della civiltà. Il secondo, dedicato a Vesta, trasferisce la scena sul colle fiorentino di Bellosguardo, dove il poeta immagina di innalzare un altare alle Grazie chiamando a celebrarne il culto tre donne da lui vagheggiate o amate (Eleonora Nencini, Cornelia Martinetti, Maddalena Bignami), come sacerdotesse della musica, della danza, della poesia. Il terzo, dedicato a Pallade, si svolge nella favolosa Atlantide e narra come la dea faccia tessere un velo che dovrà proteggere le Grazie dall’ardore delle umane passioni, rendendole cosí capaci di compiere tra i mortali la loro missione di incivilimento.

Sulla base di questa trama, solo in parte tessuta, la poesia delle Grazie si sviluppa con varia forza, raggiungendo talora un’eccezionale fusione di sentimenti, di figuratività, di musicalità, di pensiero. In tali esiti piú alti una luce aerea e suggestiva permea di sé paesaggi incantati e figure mitizzate, suscitando nel lettore quella sorta di «calore di fiamma lontana» (per usare un’espressione della Notizia intorno a Didimo Chierico) che rappresenta il culmine dell’«arcana melodia pittrice», di un’arte cioè che armonizza mirabilmente opposte tendenze e sensibilità, neoclassiche e romantiche: una poesia serena e pacata che non è frutto di puro estetismo, in quanto intesa a consolare l’umanità intera e, in particolare, l’Italia «afflitta da regali ire straniere». Ché, a ben guardare, Le Grazie sono anzitutto una risposta alla situazione storica in cui il Foscolo si trovò a vivere (il dominio autocratico e imperialistico di Napoleone) e, in parte, allo stesso profilarsi della società borghese; cosí come, piú in profondo, sono il tentativo arduo di contrapporre alla ferinità degli uomini i valori alternativi della fraternità, della giustizia, del rispetto reciproco.

Il periodo inglese e l’attività critica

Durante l’esilio londinese Foscolo conseguí ancora risultati di singolare finezza nella prosa delle Lettere dall’Inghilterra, che sviluppano (nella descrizione ironica del mondo snobistico italiano confrontato a quello inglese) la direzione di stile iniziata con la versione sterniana. Ma l’aspetto piú rilevante dell’attività foscoliana degli ultimi anni va riconosciuto nell’imponente produzione di studi e saggi. L’originalità della sua critica (appoggiata a una robusta preparazione filologica e a un’altrettanto solida conoscenza storica) consiste in una forte capacità di ricostruire integralmente la personalità e l’opera degli autori studiati, talvolta insistendo piú sugli aspetti psicologici (come nei Saggi sul Petrarca), talaltra coordinando le linee di un’epoca con le caratteristiche individuali, di linguaggio e di stile, proprie di un poeta: si pensi in tal senso al Discorso sul testo della Divina Commedia, specialmente all’esame del canto di Francesca e all’interpretazione suggestiva, anche se non accettabile, del poema dantesco come opera di un ribelle eretico. Dal grande poeta era nato un grande critico (il maggiore prima del De Sanctis), capace di indagare l’opera d’arte anche come risultato stilistico che, nella sua intima unione di verità e idealità, di «passione divorante e pacata meditazione», impegna «tutte le forze dell’uomo».